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CRESCERE NEL CRIMINE

Ragazzi e ragazze, tutti rinchiusi nello stesso lurido posto. Vittime delle loro azioni. Vittime di ciò con cui si sono macchiati. Vittime di chi li ha cresciuti. Ma soprattutto, vittime di loro stessi. Quando sei vittima di te stesso non puoi correre da nessuna parte. Solo imparando ad affrontare la realtà, solo così, potrai dire di essere veramente libero. Ma ci si può liberare della propria mente? Non potrai mai sentirti libero se prima non impari a convivere con quel che hai fatto pagandone le conseguenze. Alcune cicatrici è difficile guarirle. Dipende dove te le porti, se nel corpo, o nella mente. I pensieri fanno male, logorano. Le azioni ne conseguono. Ma quando ti ritrovi in un posto dove quel che hai fatto ti viene messo tutto su un tavolo, non puoi non guardare in faccia la realtà. Così impari a conviverci h 24, rimanendo solo tu coi tuoi pensieri perenni. Loro verranno uniti da una sola cosa, ovvero, una cella fredda ed un pavimento polveroso dove parlare dei loro maledetti problemi. E questa, è la loro storia... Lui, per lei è come una calamita Lei, per lui è la persona sbagliata. Lui, è la tempesta. Lei, è la calma. Lui, è la persona da cui vorresti stare lontano. Lei, è la persona a cui vorresti stare affianco. Lei, è cresciuta volendo pensare al futuro. Lui, è cresciuto restando intrappolato nel passato. Lei, angelo dannato in cerca di emozione. Lui, demone disperato in cerca di pace. Lei, vittima del pericolo. Lui, vittima del crimine. ⏩©copyright,tutti i diritti riservati sequel: "VIVERE NEL PERICOLO". STORIA COMPLETATA⏪

thestories01 · 現実
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66 Chs

XLV° pioggia che batte su pensieri sconnessi

Mi alzai con uno scatto e in modo brusco levai la sua mano dalla mia spalla. La feci sobbalzare.

«Come cazzo sei arrivata quì?!» sbraitai.

Questo posto è mio e di nessuno altro. È il mio segreto, perchè si trova quì?!›

Un fastidio bruciante mi premette le viscere.

«I-io...»

«Tu, cosa?» ringhiai.

Nonostante la penombra e la pioggia scrosciante potevo intravedere i suoi occhi, mi parvero lucidi.

Cos'era quello sguardo? Quanto aveva sentito?

Forse non mi ero sbagliato quando me l'ero trovata davanti, era veramente lei, eppure ero arrivato a pensare che fosse un'allucinazione. Che sciocco.

Aveva un talento nello spuntare fuori proprio nei miei momenti no.

Taylor Vega (POV'S)

Il suo sguardo stava ricadendo su di me come un macigno.

«Vattene!» mi gridò contro.

Le gocce di pioggia gli ricadevano sul viso come carezze leggere, cosa che forse gli mancava da tempo.

Anziché temerlo, alzai la mano, e tremolante, sfiorai quel taglio che gli sfregiava il viso.

Si ritrasse. Io sussultai.

Si voltò dall'altra parte e si coprì la nuca con le mani.

Lascialo stare.› -mi suggerì, ma ovviamente, non l'ascoltai.-

«Aron...» lo chiamai «Andiamo, dai.»

«Sta' zitta!»

Mi ammutoliì.

Ci fu silenzio. L'unico rumore assordante era quello della pioggia battente. Correva per il cielo e volava nell'aria sfrecciante e priva della paura di collidere.

Lui disse «Tutte le volte arrivi nei momenti meno opportuni!»

«Che cosa vuoi dire?»

Non mi diede risposta.

Si trovava ancora girato dall'altra parte, mi stava dando le spalle.

Cercai di chiamarlo ancora «Hei, Ar–..» «Taci! Taci taci taci taci taci.»

Che diamine ha desso?!›

Non compresi il suo comportamento in quel momento.

Oramai eravamo completamente zuppi ci saremmo presi una bella influenza oltre a finire sicuramente nei guai.

Ora basta. Sono stufa.› -mi aveva stancato!-

Mi ci avvicinai con prontezza. Gli toccai la spalla e lo voltai verso di me. Mi afferrò per le spalle e me le strinse forte fino a farmi male.

-Spalancai gli occhi- ‹I suoi occhi...›

Quel suo sguardo... Era identico a quello di Claus.

«Prima che finisca per ucciderti, ti conviene andartene.» il tono che usò non sembrò nemmeno essere il suo.

Dopo un tempo che parve infinito mi lasciò in malo modo ed io caddi col sedere sul terreno bagnato.

Parlò «Sai...»

La sua figura imponente torreggiava su di me.

«Tu non dovresti neanche essere quì.»

Indietreggiai usando le braccia come dei remi.

«Ti trovi in un posto di cui non dovresti sapere nemmeno l'esistenza.» continuò a dire «Questo tuo essere mi ha stancato e in questo momento non sono in grado di ragionare.»

Arrivai a toccare la parete dietro di me, la mia mano finì tra gli steli dell'unica cosa che sembrava essere ancora viva in questo prato morto.

Il suoi occhi saettarono proprio in quel punto e poi tornarono prontamente su di me.

Mi allontanai ma prima che potessi rimettermi in piedi ci pensò lui. Mi prese per i lembi della felpa e dopo avermi alzato da terra mi fece finire a mezzo metro di distanza da lì. Caddi su un fianco e la fanghiglia mi sporcò il viso. La botta non fu troppo forte ma mi provocò comunque del dolore. Cercai di pulirmi, ma peggiorai solo la situazione.

Tentai poi di capire dove fosse.

Devo andarmene. E di corsa.›

Strofinai il viso sull'altra manica.

Lo riusciì poi ad inquadrare. Se ne stava lì, con fra le mani quegli steli ormai schiacciati sia dal mio peso che da quello della pioggia.

Si rialzò in piedi. Cercai di farlo anch'io ma la gamba mi doleva, ci ero caduta sopra. Usai la forza che avevo per remare ancora all'indietro finché poi non toccai con la schiena la superficie della fontana.

Cominciò a camminare nella mia direzione. I suoi passi scricchiolarono sul terriccio.

La pioggia non faceva altro che annebbiarmi la vista.

Erano passi pesanti, i suoi, come macigni. Ed il rumore che s'udiva sembrava una ninna nanna macabra. Quella che preannuncia una fine non tanto gioiosa se mi avesse afferrato. Passi lenti. Agonici.

Io preda. Lui cacciatore.

I vestiti zuppi aderivano perfettamente a quel corpo scolpito dagli Dei greci. Era uno spettacolo, anche se pur sempre terrorizzante.

Come il diavolo che ti si avvicinava per catturarti l'anima con una lentezza disarmante, lui stava facendo, in silenzio. Quel silenzio rumoroso che ti sconquassa i nervi. Quella paura insidiosa che ti attraversa le sinapsi.

E con quei suoi occhi ora rabbuiati ti incatenava senza lasciar scampo nel sottrarvisi.

Era chiara la contrazione sul suo viso, i nervi e le vene esposte alla vista. La pioggia ne disegnava chiaramente i lineamenti duri. I pugni, serrati, stretti così tanto da poter rientrare in loro stessi.

Un ringhio, un rombo, si udì. Fu forte. Fu chiaro.

Ed a suo seguito tutto venne illuminato.

Buio. E poi luce. E poi, ancora il buio.

Altri vasti fulmini illuminarono la distesa nera sopra le nostre teste.

«A–..» annaspai.

Ben presto faticai a respirare. Qualcosa mi ancorò la gola. Si prese gioco del mio respiro.

Ancora un tuono. Ancora un fulmine.

‹Se rincorri i guai, questi, prima o poi si girano e ti colpiscono.›

Aron, con la mano che mi stringeva la gola, disse qualcosa che non arrivò ai miei timpani.

Non è possibile› -pensai.- «Claus.» pronunciai.

Il suono di quel nome raggiunse le sue orecchie e tutto parve fermarsi.

Aron Jhones (POV'S)

Mi aveva chiamato Claus.

Io non sono quel mostro di mio fratello.›

‹Ah, no?›

‹Io ho qualcosa di buono.›

‹E cosa?

Qualcosa dentro ai nervi del mio cervello si spezzò. Iniziò a pulsare, sempre di più, sempre di più, sempre di più. Fino a farmi così male da non capire più né chi fossi, né dove mi trovassi.

Mi persi nel mio stesso buio. Nel mio stesso disordine.

Taylor Vega (POV'S)

Dopo avermi lasciato cadde all'indietro.

Che cosa sta succedendo?› -mi chiesi spaventata.-

Stava tremando. Stava ansimando.

Non sembrava nemmeno più essere presente.

Si girò su un fianco e iniziò a premersi le mani sporche di terra sul viso.

Si chiuse a riccio. Gridò. Tremò.

Stava avendo un forte attacco di panico.

Mi fiondai su di lui e cercai di tirarlo su in piedi o di smuoverlo ma era impossibile farcela da sola.

Che cosa devo fare?! Che cosa devo fare?!›

Io gli parlavo ma lui non mi ascoltava, le mie parole non gli arrivavano.

«Aiuto! Aiuto!» cominciai a gridare a pieni polmoni «Aiutooooooo!» urlai in modo disperato.

Christian Jay (POV'S)

Dov'è andato a finire quell'idiota?!›

Erano le 21:30!

Ebbi un flash.

Corsi sotto a questo temporale mostruoso finché non raggiunsi il muro, e più mi avvicinavo, più sentivo una voce gridare aiuto.

Lo varcai.

Trovai Aron riverso al suolo e Taylor che piangeva.

«Che cazzo è successo?!» domandai con urgenza.

Mi buttai con le ginocchia a terra e cercai di capire la situazione.

Una crisi.›

Senza troppe spiegazioni me lo issai su una spalla.

Con fatica raggiunsimo il varco ma passarci era impossibile.

Taylor disse spaventata «E adesso?! Che facciamo?!»

«Calma...» dissi. ‹Devo pensare!›

Ebbi un'illuminazione e sperai di avere ragione.

«Di quà!»

Percorso il perimetro del muro raggiunsimo il portico ed entrammo.

«Fai attenzione, è pericolante.» la avvertiì.

Non entravo quì da tempi immemori. Ma era l'unica strada possibile.

Passata l'ubicazione camminammo per ancora qualche metro fino a raggiungere la porta.

Le chiesi di aiutarmi a tenerlo su.

La apriì e dinnanzi a noi si presentò il muro. Iniziai a sferrargli dei calci, riusciì a sfondarlo! Per fortuna non era ancora stato sostituito il cartongesso.

Dopo averlo ripreso con me entrammo nell'area delle celle d'isolamento.

Spalancai la porta dell'infermeria.

Il medico esclamò «Che cosa sta accadendo?!»

«Ha bisogno di un calmante!»

Me lo trascinai appresso, non reggevo più.

«Ora!»

Venne in mio soccorso.

«Che cos'è successo?»

Gli spiegai a grandi linee e nel mentre lui preparò il necessario.

Disse «Sembra che stia quasi per avere un attacco cardiaco, i battiti sono troppo irregolari!»

«Dobbiamo chiamare un ambulanza.» mi affrettai.

«No, ci vorrebbe troppo.» diniegò «Sarebbe stato troppo tardi se foste arrivati quì due minuti dopo ma per fortuna è risolvibile.»

Terminò di iniettargli il Valium.

Tirai un sospiro, erano passati alcuni minuti.

«Siamo stati fortunati, hai visto?» dissi a Taylor.

Non la vidi.

«Con chi stai parlando?» domandò egli.

Usciì dallo studio per andarla a cercare, dove poteva essere finita?

Tornai alle celle d'solamento e notai che la porta fosse ancora aperta. Varcai la sua soglia.

«Taylor!» la chiamai, non ebbi risposta.

Se non si trovasse quì?›

Guardai la superficie del pavimento e spostando lo sguardo nella direzione opposta da dov'eravamo arrivati notai delle tracce.

È sicuramente quì.›

Seguiì le sue impronte e svoltai l'angolo, ma non ebbi bisogno di cercare per molto. La trovai in mezzo al corridoio, davanti ad un'entrata, ad osservarne l'interno.

«Sei quì.» dissi, e la mia voce riecheggiò nell'aria.

Parve non sentirmi. Abbassò la testa.

Quando stetti per ricominciare a parlare le sentì fare un verso. Era l'accenno di una risata quella?

Rimasi perplesso.

Il rumore dei miei passi si dispersero lungo il corridoio.

Le ero di fianco.

«Hey, tutto okay?» le chiesi mentre si osservava le scarpe.

Cominciò a ridere.

«Ti senti bene?»

Volli toccarle la spalla, ma qualcosa mi suggeriì di non farlo.

Rise sguaiatamente.

Feci un passo in dietro.

Hai paura di lei?›

‹Perchè dovrei averne?›

Perchè sembra qualcun'altro.› -mi rispose- Ti ricordi chi rideva in questo modo?› -mi disse.-

Un'espressione che non riusciì a definire io stesso si dipinse sul mio viso.

«Taylor.» alzai la voce per farmi sentire.

Smise di ridere.

Si voltò verso di me, sembrò essere presente ma assente allo stesso tempo.

Il temporale non era ancora cessato e un fulmine illuminò tutto a giorno.

«Taylor...» allungai la mano.

Sbatté le palpebre più e più volte, scosse la testa. Tornò poi a guardarmi e sembrò avere un mancamento.

La sostenni «Ti senti bene?»

«S-sì...» mise una mano sulla fronte «Ho avuto un capogiro.»

«Okay andiamo, dai.»

Si guardò in torno «Dove siamo?»

La guardai perplesso «Nell'area vecchia.»

«Che ci facciamo quì?»

«Ti ho trovata, stavi fissando quella stanza.» gliela indicai.

La osservai assente «Che–..» si premette la testa.

Non ricorda niente?›

«Dai, forza.» dissi e la portai via con me.

Senza farmi notare non feci altro che osservarla attentamente per tutto il tragitto.

Taylor Vega (POV'S)

Entrammo in infermeria, non c'era nessuno a parte noi.

Christian mi disse «Torno fra poco, okay? Intanto pensa a cambiarti.»

Se n'era andato.

Ma perchè mi aveva dedicato quello strano sguardo?

Strarnutiì. I capelli ancora umidi mi ricadevano sulle spalle nude.

«Domani mi verrà una bella influenza accidentaccio...» mi lamentai con me stessa.

Nel mentre che mi infilavo la maglia il mio sguardo ricadde su di lui che ora sembrava così calmo...

Stava dormendo.

Si rigirò nel letto e la coperta di pile scivolò a terra. Mi affrettai nel recuperarla. Quando gliela stetti per rimettere addosso notai che fosse a petto nudo.

Hai caldo per caso?› -dopo la sua affermazione malevola arrossiì ancora di più.-

Gli occhi vagarono lungo la superficie della sua pelle, mi misi ad osservare quei tatuaggi che gli ricoprivano la maggior parte del corpo. Ne era pieno e dovevano piacergli parecchio.

Li osservai uno ad uno. Erano interessanti.

Ognuno di questi racchiude una storia che poi decidiamo di marchiare sul nostro corpo.

I motivi per decidere di tatuarsi possono essere tanti, e a parer mio, quello più vero, era che delle volte il significato delle strade che arrivavamo a percorrere ci segnava così tanto da decidere di imprimerle per sempre su di noi. Per far sì di non scordare mai. Per fare di un significato dell'arte.

Io non ne avevo, ma mi piacevano, mi erano sempre piaciuti. La cosa che ancor più adoravo era tirarne fuori dei significati tutti miei.

Lo osservai dormire a lungo.

I miei occhi ricaddero poi sulle sue cicatrici ben evidenti nonostante fossero ricoperte di nero. Sfiorai la più evidente.

«Mmh...»

Balzai all'indietro. Lo avevo svegliato? Sembrò di no, teneva ancora gli occhi chiusi.

«Mi vuoi guardare ancora per molto?»

Si tirò su a sedere.

«Non devi toccarmi comunque.»

Non feci caso al tono che usò e gli chiesi «S-stai bene?»

«Mi hai chiamato col suo nome.» disse tutto ad un tratto.

«Come

«Hai sentito. Non far finta di niente

Cercai il suo sguardo ma lui non me ne diede l'accesso «Non sto facendo finta di niente Aron.»

I suoi occhi scattarono su di me.

«Mi hai chiamato Claus.»

Fu mia la volta di scostare i miei occhi dai suoi.

Con un gesto mi prese il mento fra le dita, mi costrinse a guardarlo.

«Mi hai chiamato Claus.» ripetette più lentamente.

Le mie pupille rimasero ferme nelle sue per qualche altro istante prima di riuscire a rispondergli.

«Io–..» tentennai.

Aron continuò a guardarmi «Perchè.»

«Cosa?»

«Non–..» alzò il tono di voce ma fermò le proprie parole, si armò prima di pazienza «Perchè mi hai chiamato col suo nome?»

Sfuggiì al suo tocco «È stato un attimo, ma in quell'attimo, mi è sembrato di vedere lui.» spinsi fuori dalle labbra.

Aron chiuse gli occhi. Si prese un momento.

Che avrei potuto dirgli? Niente, ecco cosa. Non potevo dire niente. Non ero io ad aver bisogno di giustifiche o scusanti.

Tirò via la coperta e poi mise giù i piedi dal letto.

Io gli dissi «Che cosa stai facendo? Dovresti riposare!»

Appena si fu alzato in piedi ebbe un capogiro.

Insistetti «Se–..» «Fatti gli affari tuoi!»

Mi zittiì.

Con uno scatto la sua mano andò a collidere col muro formando così una crepa su quella vecchia parete. Rimase col braccio teso per più di qualche secondo.

Teneva gli occhi chiusi. Quando li riaprì notai il suo sguardo perso. Gli occhi vitrei, spalancati.

Il respiro sembrò accelerare.

Se si fosse sentito male di nuovo?

Mi avvicinai con cautela, senza dirgli niente. Sperai solo che non mi respingesse.

Chiusi il suo polso con entrambe le mani. Gli feci spostare da lì la mano chiusa a pugno e nel farlo lo guardai negli occhi. Volevo infondergli calma, fargli capire che non ero una minaccia.

Notai un rivolo di sangue scivolare lungo il suo polso per poi cadere a terra.

Osservai quella goccia.

Presi in seguito un pezzo di carta e lo ripuliì da quella macchia che sporcava la superficie della sua pelle.

Come poteva un colore che preannuncia solamente dolore donargli così tanto addosso?

Schiuse le labbra «Forse so perchè ti odio.»

Le sue parole mi presero alla sprovvista.

«Per il tuo essere delicata anche con le cose che sono tutto l'opposto.» parlò con voce roca «E ti odio perchè so che questo potrebbe portare ad ucciderti, ma tu lo sai, e nonostante tu sappia non te ne importa niente.»

La voce soave che usò per pronunciare quelle parole che alle mie orecchie parvero una ninna nanna mi tenne in balia del suo decanto.

Ma dopo la carezza arrivava sempre lo schiaffo.

«Ti avrei uccisa. Ringrazia i miei mali.»

Si era già allontanato da me.

Qualcosa di profondo venne spinto automaticamente fuori dalle mie labbra «Non farti mangiare dalle tue paure.»

Riguadagnai la sua attenzione.

«Paure? Quali?» chiese divertito «Tu non sai niente. Io non ho paura di niente.»

«Di lui hai paura.»

In un lampo mi fu ad un respiro di distanza.

«Non diciamo cazzate!» ringhiò.

Non lo temetti.

«Tu sei più di questo.»

Sventolò le mani davanti al viso e poi roteò gli occhi.

In seguito, s'allontanò nuovamente.

«E soprattutto non sei lui.»

Ritornammo esattamente nella posizione in cui eravamo l'attimo prima.

«Eppure mi hai chiamato così.»

Ingoiai il colpo.

Mi sfiorai la gola. Mi persi per un secondo.

Il suo sguardo cadde in quel punto «Ti fa male?»

«È?» mi riscossi «Oh, no no.» mi tolse la mano per riuscire ad osservare meglio «Hei, che...» ‹Cosa sta facendo?›

Fece un lungo respiro. Si spostò lontano.

«Hai ragione.» disse «Io non sono lui, io sono io, ed è questo il problema.»

È dopo che ebbe detto questo rimasi da sola.

Christian Jay (POV'S)

Stavo riaccompagnando Aron nella Z5.

«Dove pensavi di andare?» domandai «Ora stai bene?»

Sbuffò.

Lasciai stare, meglio non insistere.

Dopo aver aperto la cella lui entrò senza emettere suono.